Nella prima metà del ventesimo secolo le parole-chiave furono "industria" e "velocità". Dalla fine della seconda guerra mondiale a oggi, sono state sostituite da "globalizzazione", "informatica", "finanza". Per capire i trend del mondo del lavoro, anche con l'utilizzo della rete, Eco-news ha intervistato Domenico De Masi, professore di Sociologia delle Professioni presso l'Università "La Sapienza" di Roma, direttore scientifico della società S3. Studium e della rivista "Next".
Professor De Masi, come dobbiamo aspettarci che evolva il mercato del lavoro anche in relazione alla crisi?
La globalizzazione, il progresso tecnologico, l'aumento della popolazione mondiale e l'emergere di alcuni grandi Paesi di quello che chiamavamo Terzo Mondo sono i fattori che spingono il mondo della domanda e offerta di lavoro verso un'unica direzione: lo sviluppo senza lavoro, cioè il fatto per cui il numero di chi cercherà un'occupazione crescerà più del numero di quelle disponibili. Questo trend caratterizza la nostra società postindustriale, dominata dall'informatica, mentre nella precedente società industriale (1750-1950), i lavoratori necessari per produrre le nuove tecnologie erano più di quelli che venivano sostituiti da quelle tecnologie. Dunque la disoccupazione non dipende da una crisi congiunturale ma da un mutamento strutturale, che ci consente di produrre una quantità crescente di beni e di servizi con una quantità decrescente di lavoro umano. In se stessa, questa rivoluzione è positiva e segna un progresso della nostra civiltà , ma noi, invece di prevederla e gestirla con equilibrio, l'abbiamo subìta. Il risultato è che i molti genitori lavorano dieci ore al giorno mentre i loro figli restano disoccupati.
Ha parlato di globalizzazione: in che termini incide sull'occupazione? Le migrazioni sono sempre esistite nella storia dell'uomo, ma anche esse mutano. Nei prossimi anni coloro che, in Italia, hanno un elevato tasso di scolarizzazione cercheranno un impiego all'altezza della propria preparazione in Paesi emergenti come l'India, la Cina e soprattutto il Brasile: Paesi che investono in innovazione e cercano persone preparate. Chi invece avrà una scolarizzazione minore, tenderà a rimanere in Italia.
Questo scenario nel recente passato era immaginabile?
Alcuni studiosi l'hanno previsto e teorizzato, ma la massa ha continuato a considerare il mercato del lavoro come se non ci fosse né progresso tecnologico, né globalizzazione. Ora però non c'è più tempo da perdere. I giovani debbono battersi per una migliore organizzazione del mercato del lavoro e, nel frattempo, prendere in considerazione anche il trasferimento nei paesi emergenti. Da parte di questi Paesi - soprattutto del Brasile - vi è una forte richiesta di tecnici. Come si vede, siamo di fronte a una radicale redistribuzione degli assetti geopolitici. È il caso di rendersene conto.
Tra le concause della profonda mutazione ha citato la tecnologia…
La tecnologia da un lato ci aiuta a stare meglio perché permette di delegare alle macchine tutti i compiti peggiori: faticosi, pericolosi, ripetitivi, banali. Dall'altro, però, va comunque a sostituire posti di lavoro che, anche quando pesanti per attività, orario e via dicendo, si traducevano comunque in impieghi retribuiti. Facciamo un esempio: se hai un I-Pad puoi usarlo per leggere giornali e libri e ciò richiederà meno gente per piantare gli alberi, tagliarli, trasformarli in carta, stampare, distribuire e vendere i prodotti cartacei. È vero che in California, dove si progetta l'I-Pad, e in Cina, dove si produce, si sono create alcune migliaia di posti di lavoro, ma in tutto il resto del mondo i posti di lavoro distrutti dall'I-Pad saranno centinaia di migliaia. Con ciò non dico di bloccare il progresso tecnologico: non sono un luddista ma un entusiasta delle nuove tecnologie. Però occorre riprogettare il mercato del lavoro in modo da tenere conto del fatto ineluttabile che esse creano meno posti di lavoro di quanti ne creino. Qui sta il loro intrinseco vantaggio umano. Tra l'altro, queste nuove tecnologie hanno cambiato radicalmente le dimensioni spazio-temporali del lavoro. Dall'orario canonico si può passare a lavorare intervallando momenti di vita privata, a distanza, magari in telelavoro. Tutto questo grazie alla rete, i pc, gli smartphone e via dicendo. Purtroppo, però, stiamo ignorando o sprecando molti vantaggi consentiti dalle nuove tecnologie perché ci ostiniamo a organizzare il lavoro intellettuale degli impiegati, dei professional, dei manager, secondo i vecchi criteri con cui erano organizzati gli operai metalmeccanici delle vecchie fabbriche. Le aziende, ignorando il progresso tecnologico, imbrigliano le attività intellettuali nei confini propri del lavoro manuale: gli orari fissi, la compresenza fisica, il sincronismo e via dicendo. È assurdo gestire il nuovo con le regole vecchie.
In tal campo, cosa pensa del cosiddetto web 2.0: blog, social media, ecc.? Sono strumenti importantissimi sotto molteplici punti di vista.
Innanzitutto rientrano nei "media" e, come tali, creano cultura e formano. Nella vecchia società rurale la cultura era prodotta da pochi (per esempio, da Dante o Manzoni) per i pochi che sapevano leggere e scrivere. Poi, nella società industriale, la cultura è stata prodotta da pochi per molti (per esempio, da un pianista che suona alla radio per un numero enorme di ascoltatori). Oggi, finalmente, tramite wikipedia, facebook e via dicendo, la produzione e la diffusione del sapere avvengono secondo un nuovo criterio: quello di "molti per molti". Per quanto riguarda il lavoro, questi sono mezzi fondamentali. Oltretutto, molti giovani, usandoli come hobby, hanno finito per trasformarli nel proprio impiego. Si tratta, insomma, di strumenti preziosi spesso sottovalutati proprio da quei soggetti - le imprese - che trarne il massimo vantaggio. Molte aziende, sciaguratamente, arrivano persino a vietare ai loro dipendenti l'uso di questi mezzi preziosi.
I giovani, anche laureati, faticano spesso a trovare lavoro. Ha ragione chi provocatoriamente sostiene sia meglio non proseguire gli studi e cercare subito un impiego?
Assolutamente no, la cultura serve sempre. Anche nei casi più estremi è meglio essere disoccupati scolarizzati, che disoccupati e basta. Andando ai dati: cento anni fa nei Paesi occidentali le persone svolgevano quasi del tutto attività manuale e i lavoratori intellettuali erano il 10%. Oggi sono il 66%. Va da sé che un laureato potrà trovare un'occupazione prima di una persona senza titoli accademici. In particolar modo avranno successo, anche in termini di retribuzione, le professioni intellettuali creative e, come dicevamo, bisognerà essere pronti a viaggiare nel mondo.
A oggi quale consiglio darebbe alle università e al settore della formazione in generale?
Vi è un punto fermo essenziale: nella formazione deve avere un ruolo fondamentale la cultura generale che consente alle persone di migliorare la comprensione che e¬sse hanno della vita e, quindi, del lavoro. Prendiamo un ventenne. Ha davanti a se circa 530 mila ore di vita (pari a circa 60 anni) di cui 80 mila lavorative. Delle rimanenti 450 mila ore, 220mila restano impegnate per le funzioni vitali come dormire, mangiare, ecc. e 230mila ore rimangono totalmente libere. Dunque, il lavoro, nel migliore dei casi, occupa appena un settimo della vita che un ventenne ha davanti a sé. Non si può pensare all'istruzione e ai saperi come finalizzati solamente a quel settimo. È indispensabile che gli individui siano adeguatamente formati dalla famiglia, dalla scuola e dai media non solo al lavoro, ma anche a tutto il resto della loro vita.
In questo periodo si parla tanto di riforma del lavoro. Cosa si sentirebbe di dire al Governo italiano?
Il Governo parla sempre e solo di crescita, come se l'attuale crisi fosse un fatto momentaneo, destinato certamente a essere superato. Ma siamo certi che ci attende un'ulteriore crescita? Oggi, in media, ogni italiano fruisce di un prodotto lordo pari a 37.000 dollari mentre un cinese deve accontentarsi di un decimo: 3.700 dollari. Siamo dunque certi che, in un mondo globalizzato, con un'economia fatta a vasi comunicanti, noi continueremo a crescere, sempre a scapito dei paesi poveri, come abbiamo fatto finora? Io ricorderei al nostro Governo che, accanto a un "piano A", basato sulla certezza di un'ulteriore crescita, è prudente allestire un "piano B", basato sull'eventualità di una decrescita che ci costringa a ridistribuire il lavoro, la ricchezza, il sapere, il potere, le opportunità e le tutele. Altro che articolo 18!
Parla di ripartire il lavoro. Ma in che senso?
Le nuove norme sulle pensioni obbligano milioni di lavoratori anziani, che erano giunti alla soglia del pensionamento, a prolungare per alcuni anni la loro permanenza sul lavoro. Ciò ritarda ulteriormente il ricambio con i giovani, che vedono ulteriormente ridotte le loro possibilità occupazionali. Ci siamo sempre lamentati dell'età troppo elevata de carso turnover ma ora avremo in azienda persone ancora più vecchie e il turnover sarà ancora più lento.
Per ottenere una piena occupazione dei giovani il Governo dice che essi debbono inventarsi un lavoro o emigrare. Ma inventarsi quale lavoro? Ed emigrare verso quali méte?
Non tutti nascono con il bernoccolo dell'imprenditore e molti Paesi (compresi gli Stati Uniti), méte tradizionali della nostra emigrazione, sono a loro volta afflitti dalla piaga della disoccupazione. Il rimedio migliore resta quello indicato da Keynes fin dal 1930: la riduzione dell'orario di lavoro, proporzionale all'incremento della produttività dovuta al progresso tecnologico e allo sviluppo organizzativo. E, prima ancora, il divieto di lavoro straordinario. In Italia sono almeno due milioni i manager e i professionisti che ogni giorno fanno un paio di ore di overtime. In complesso si tratta di 880 milioni di ore annue che potrebbero essere convertite in 500.000 nuovi posti di lavoro.
In merito alle scelte politiche attuali, si parla di vietare gli stage gratuiti in Italia. Cosa ne pensa?
Non sono assolutamente d'accordo con tale provvedimento del Governo. In Italia vi sono centinaia di migliaia di giovani che hanno terminato gli studi ma non sono ancora riusciti a trovare un lavoro. Fare uno stage, significa avere comunque un impegno da rispettare e un'esperienza da acquisire. Restarsene a casa con le mani in mano vuol dire essere esposti alla depressione, alla disperazione, alla violenza. Gli stage, anche se gratuiti, sono pur sempre un'occupazione e un apprendimento. La preparazione pratica - anche quella acquisita per mezzo di uno o più stages - rimane un prezioso punto di partenza per la ricerca di qualsiasi lavoro.