Il sociologo divenuto famoso soprattutto per i suoi studi sulla connessione tra la cultura della modernità il totalitarismo, colui il quale ha focalizzato le sue ricerche sulla stratificazione sociale e il movimento dei lavoratori fino a temi più generali come la post-modernità, oggi a 86 anni analizza il fenomeno di Facebook. Stiamo parlando di Zygmunt Bauman, nato a Poznan in Polonia il 19 novembre 1925 da famiglia ebrea e trasferitosi in Inghilterra nel 1968 dopo l'ondata di emigrazione di tanti intellettuali ebrei, dove ha tenuto per 19 anni la cattedra di Sociologia alla Università di Leeds.
Nei suoi ultimi lavori troviamo il tentativo di spiegare la postmodernità usando le metafore di modernità liquida e solida. Sostenendo che l'incertezza che tormenta la società moderna provenga dalla trasformazione dei suoi interpreti da produttori in consumatori, Bauman è andato ad analizzare, legando tra loro, concetti quali il consumismo e la creazione di rifiuti umani, la globalizzazione e l'industria della paura, lo smantellamento delle sicurezze dato da una vita liquida sempre più scatenata e forzata a conformarsi alle predisposizioni del gruppo per non sentirsi esclusa.
Bauman ha inviato alla redazione di Eco-news un suo documento - ancora ufficialmente inedito - sul suo pensiero sul fenomeno Facebook come necessità dei giovani di oggi ed è questo suo ultimo studio che approfondiremo in queste righe. "Il social network tenta di abbattere ogni limite, moltiplicando le "amicizie", ma oltre un certo numero si può supporre che si tratti solo di voyeur che scrutano l'altrui vita quotidiana. Facebook si è distinto di molto da ogni altra moda passeggera legata a Internet, e ha schiacciato tutti i record di crescita del numero degli utenti regolari. Altrettanto si può dire per il suo valore commerciale, che secondo Le Monde del 24 febbraio scorso ha ormai raggiunto la cifra straordinaria di 50 miliardi di dollari. Il numero degli "utenti attivi" di Facebook ha superato la boa del mezzo miliardo: alcuni di essi, più attivi di altri, ma ogni giorno va su Facebook almeno la metà di tutti i suoi utenti attivi. La proprietà informa che l'utente medio di Facebook ha 130 amici (amici su Facebook), e gli utenti vi passano nell'insieme più di 700 miliardi di minuti al mese. Se questa cifra astronomica è troppo grande da assimilare, sarà bene far notare che, se divisa in parti uguali fra tutti gli utenti attivi di Facebook, coinciderebbe a circa 48 minuti al giorno per ciascuno. In alternanza, potrebbe corrispondere a un totale di 16 milioni di persone che trascorrono su Facebook sette giorni a settimana, 24 ore al giorno. Si tratta di un successo singolare secondo ogni criterio di giudizio. Quando ha concepito Facebook (ma c'è chi dice abbia rubato l'idea), e l'ha poi lanciato su Internet nel febbraio del 2004 per gli studenti di Harvard, l'allora ventenne Mark Zuckerberg dev'essersi incappato in una specie di miniera d'oro: questo è alquanto chiaro".
Ma che cosa era quel minerale simile all'oro che il fortunato Mark ha individuato e continua a estrarre con profitti straordinari che non smettono di incrementarsi?
Il professore parte dalla differenza tra comunità e rete e colloca l'uso di Facebook nel concetto di rete. Esso spiega: "Ciò che si è comperato è una rete, non una "comunità". E le due cose, come si scoprirà prima o poi (a condizione, naturalmente, di non dimenticare, o non mancare di imparare, che cosa sia la "comunità", occupati come si è a crearsi reti per poi disfarle), si somigliano quanto il gesso e il formaggio. Fare parte di una comunità rappresenta una condizione molto più riparata e affidabile, benché indubbiamente più delimitante e più vincolante, che avere una rete. La comunità è qualcosa che ci osserva da vicino e ci lascia poco spazio di movimento: può esiliarci, ma non ammette dimissioni volontarie. Invece la rete può essere poco o per nulla interessata alla nostra ubbidienza alle sue norme (sempre che una rete abbia norme alle quali uniformarsi, il che assai spesso non è), e quindi ci lascia molto più a nostro agio e soprattutto non ci castiga se decidiamo di lasciarla. Però sulla comunità si può contare come su un amico vero, quello che "si riconosce nel momento del bisogno".
Ebbene a questo punto Bauman ci chiede: "Quei nomi e quelle foto che gli utenti di Facebook chiamano "amici" ci sono vicini o lontani?". Prendendo l'esempio di un esaltato "utente attivo" di Facebook si nota come esso si vanta di riuscire a farsi 500 nuovi amici al giorno, più di quanti Zygmunt Bauman abbia acquisiti nei suoi 86 anni di vita!
A questo punto il pensiero va all'evoluzionista antropologo Robin Dunbar: "La nostra mente non è stata predisposta (dall'evoluzione) a consentirci di avere, nel nostro mondo sociale, più di un numero assai limitato di persone". Questo numero Dunbar l'ha addirittura calcolato, scoprendo che "un essere umano non riesce a tenere in piedi più di circa 150 rapporti significativi". Le "reti di amicizie" supportate elettronicamente promettevano di spezzare le ribelli limitazioni alla socievolezza assicurate dal nostro patrimonio genetico. Allora, dice Dunbar, non le hanno frantumate e non le frantumeranno: la promessa può soltanto essere disattesa. Tra quei mille amici su Facebook, i "rapporti significativi" - mantenuti per mezzo di un servizio elettronico oppure vissuti off-line - sono stabiliti, come prima, dai limiti intransitabili del "numero di Dunbar".
Il vero servizio reso da Facebook e da altri siti "sociali" simili è quindi secondo Bauman il mantenimento del nucleo di amici nelle condizioni del mondo attuale, un mondo che si muove in fretta e cambia rapidamente. Secondo il sociologo il contenuto del concetto di "numero di Dunbar" deve essere cambiato oggi, a meno che tale contenuto non si esaurisca unicamente nel numero. Il punto è che, a prescindere dal fatto che il numero di persone con cui si può stabilire un "rapporto significativo" non sia variato nel corso dei millenni, il contenuto richiesto per rendere "significativi" i rapporti umani dev'essere cambiato notevolmente, e in modo estremamente tassativo rispetto a trenta-quarant'anni fa. Esso è cambiato al punto che, come ipotizza lo psichiatra e psicoanalista Serge Tisseron, i rapporti considerati "significativi" sono passati dall'intimité all'extimité, cioè dall'intimità a ciò che egli chiama "estimità". Ed ecco che la società di oggi si caratterizza secondo Bauman per la sua voglia di confessione. "L'avvento della società-confessionale ha segnato il trionfo definitivo di quella invenzione squisitamente moderna che è la privacy - ma ha anche segnato l'inizio delle sue vertiginose cadute dalla vetta della sua gloria." Come per altre categorie di beni personali, infatti, la segretezza è per definizione quella parte di conoscenza la cui condivisione con altri è rifiutata o proibita e/o rigorosamente controllata. La segretezza, per così dire, contrassegna i confini della privacy, essendo quest'ultima la sfera destinata a essere propria e a partire dalla quale si possono lanciare e rilanciare le campagne per far riconoscere e rispettare le proprie decisioni e mantenerle tali. In una sorprendente inversione a U rispetto alle abitudini dei nostri antenati, però, abbiamo perso il fegato, l'energia e soprattutto la volontà di persistere nella difesa di quei diritti. E allora secondo il sociologo ultra-ottantenne al giorno d'oggi siamo spaventati non tanto dalla possibilità del tradimento o della violazione della privacy, quanto proprio dal suo opposto, cioè la prospettiva che tutte le vie d´uscita possano venire bloccate.
A quanto sembra non gioiamo più ad avere segreti, a meno che non si tratti di quel genere di segreti in grado di esaltare il nostro ego attirando l'attenzione dei ricercatori e degli autori dei talk-show televisivi, delle prime pagine dei tabloid.
Prendendo come esempio la sua Gran Bretagna, la illustra come paese arretrato di cyber-anni rispetto all'Estremo Oriente in termini di diffusione e utilizzo di apparecchiature elettroniche di avanguardia. Gli utenti anglosassoni forse si affidano ancora al social networking per rendere pubblica la loro libertà di scelta e perfino lo ritengono uno strumento di disubbidienza e auto-affermazione giovanile. In Corea del Sud, invece per esempio, dove la maggior parte della vita sociale è già solitamente mediata da apparecchiature elettroniche (o, piuttosto, dove la vita sociale è già stata trasformata in vita elettronica o cyber-vita, e dove la "vita sociale" per buona parte si trascorre principalmente in compagnia di un computer o di uno smartphone e solo in un secondo momento in compagnia di altri esseri umani in carne e ossa), i giovani sono coscienti di non avere nemmeno un frammento di scelta: là dove vivono, vivere la vita sociale per via elettronica non è più una scelta ma una necessità, un "prendere o lasciare". La "morte sociale" è destinata a quei pochi che ancora non si sono collegati a Cyworld, leader del mercato sudcoreano in fatto di cultura show-and-tell. I ragazzi forniti di confessionali elettronici portatili non sono che tirocinanti in formazione e formati all'arte di vivere in una società-confessionale, una società nota per aver cancellato il limite che un tempo divideva pubblico e privato, per aver fatto dell'esposizione pubblica del privato una virtù pubblica e un dovere, e per aver spazzato via dalla comunicazione pubblica qualsiasi cosa resista a lasciarsi ridurre a confidenze private, insieme a coloro che si rifiutano di farle.
Un altro punto di analisi del professore concerne i consumatori e la società in cui vivono. Essere membri della società dei consumatori è un compito e un percorso in salita che non finisce mai. La paura di non riuscire ad adattarsi è stata soppiantata dal timore dell'inadeguatezza, ma non per questo si è fatto meno straziante. I mercati dei consumatori sono smaniosi di capitalizzare questa paura, e le industrie che sfornano beni di consumo competono per lo status di guide/aiutanti più affidabili per i loro clienti, sottoposti allo sforzo continuo di essere degni di questo compito. Sono i mercati a somministrare gli "attrezzi", cioè gli strumenti indispensabili per "auto-fabbricarsi": un lavoro che ciascuno esegue da sé. E in realtà, le merci che i mercati rappresentano come "attrezzi" destinati a essere usati dai singoli per prendere decisioni non sono quindi altro che decisioni già prese. Quelle merci sono state preparate ben prima che il singolo si trovasse dinanzi al dovere (rappresentato come opportunità) di decidere. È quindi assurdo pensare che quegli strumenti rendano possibile una scelta individuale delle finalità. Al contrario, essi non sono che cristallizzazioni di un'inarrestabile "necessità" che gli esseri umani, oggi come un tempo, sono tenuti a conoscere, cui devono attenersi, e cui devono imparare a obbedire per essere liberi.