Dopo una lunga esperienza nelle pubbliche relazioni nel 2009 Sissi Semprini ha fondato, insieme con altri due soci, Greenbean, "la prima agenzia italiana di brand communication interamente dedicata alla sostenibilità", con l'idea di "aiutare le aziende a sviluppare idee e strategie di marketing e comunicazione per integrare e affermare la sostenibilità come valore di marca e d'impresa, per accrescere il business e preservarlo per il futuro". Sul greenwashing l'agenzia ha condotto due anni fa uno studio specifico, prendendo in esame cinquantatré 53 casi di falsa sostenibilità . Il fenomeno, però, assicura Sissi Semprini, "è abbastanza limitato, forse anche perché in Italia la sostenibilità non è ancora una vera e propria tendenza e viene poco cavalcata".
Il settore della Green economy ha avuto un grande sviluppo in questi anni e si è rivelato uno dei pochi in grado di tenere alla crisi. Dal punto di vista della comunicazione, cosa è cambiato?
Devo dire che, dal punto di vista della comunicazione, l'Italia fa ancora abbastanza fatica. A livello internazionale, invece, lo sviluppo della green economy sta cambiando la comunicazione delle aziende che integrano la sostenibilità: l'attenzione si è spostata da una comunicazione pragmatica, razionale, fatta di informazioni complesse e poco interessanti, alla sperimentazione di linguaggi e mezzi che semplificano le informazioni e puntano invece a coinvolgere ed emozionare di più. In concreto, le aziende stanno rinunciando al fatto di raccontare il loro impegno ambientale solo con il bilancio di sostenibilità e le certificazioni, utilizzando invece mezzi e linguaggi più accattivanti. Mi vengono in mente i casi di General Electric, Patagonia, Timberland. In Italia, al contrario, si è più tradizionali: le aziende sono ancora un po' timide e non investono molto nel comunicare la sostenibilità.
Questo in cosa si traduce se ci si mette nei panni del consumatore?
Molte campagne di comunicazione fino ad oggi erano poco coinvolgenti e non riuscivano a far capire il beneficio di certe pratiche di sostenibilità per il consumatore. Il punto è che le aziende non possono limitarsi a considerare gli effetti ambientali delle loro attività, ma devono integrare il valore della sostenibilità nei loro prodotti. Solo una piccola percentuale di consumatori compra un prodotto perché l'azienda rispetta l'ambiente o neutralizza le emissioni piantando alberi in Africa: la cosa che sta più a cuore alla maggior parte delle persone è sapere come quel prodotto è fatto, cosa c'è dentro, perché rispetta me, l'ambiente, la società. Performance più sostenibilità. O sostenibilità più performance. Ovvero la comunicazione dovrebbe essere in grado di tradurre la sostenibilità in maggiore qualità per il consumatore.
Alcuni esempi di campagne efficaci da questo punto di vista?
La nuova campagna Valcucine, per esempio, è interessante perché non scinde la qualità dalla sostenibilità, ma anzi le unisce: l'attenzione all'ambiente non è un elemento accessorio, ma una componente essenziale, di cui la qualità è il risultato. Anche Barilla sta iniziando a integrare la sostenibilità all'interno dell'attività dell'azienda, con più attenzione a raccontare come sono fatti i propri prodotti. La comunicazione delle acque minerali, al contrario, è asettica e non coinvolge: di nuovo, si dice che nella bottiglia c'è una parte di plastica riciclata, ma non si punta molto sulle caratteristiche dell'acqua. Nel campo della moda, le cose vanno un po' diversamente: ci sono alcuni brand attenti alla sostenibilità, ma hanno paura a comunicarlo e a integrare questo valore con gli altri. Il timore è che concentrarsi sulla sostenibilità "sfuochi" il brand.
In ambito green economy, quanto è vero e quanto è falso? Quanto è ampio cioè il fenomeno del cosiddetto greenwashing?
Direi che in realtà il fenomeno è abbastanza limitato, forse anche perché in Italia la sostenibilità non è ancora una vera e propria tendenza e viene poco cavalcata. Mi viene in mente per esempio il fenomeno molto greenwashing delle campagne a impatto zero, in cui magari si neutralizzavano le emissioni piantando alberi in Africa. Non hanno funzionato e, forse anche per la crisi, se ne vedono sempre meno. Più spesso vedo degli errori veniali: per esempio, molti si fanno il proprio marchietto verde "autocertificandosi". Il fatto è anche che in Italia non c'è un'autority ad hoc, la competenza ricade sull'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, e il greenwashing viene considerato una forma di comunicazione scorretta. In ogni caso, bisogna dire che i consumatori sono molto più intelligenti di quanto pensino i direttori marketing.
Ma le aziende sono sempre oneste e trasparenti nel comunicare la sostenibilità ai consumatori?
Il problema è cosa vuol dire trasparenza. Anche nei bilanci di sostenibilità, che dovrebbero essere il mezzo trasparente per eccellenza, sono poche le aziende che hanno il coraggio di dire quello che non va o dove hanno fallito. Più spesso, a meno che non si seguano degli standard particolari, si cerca di mettere l'accento sugli ambiti in cui l'azienda ha fatto bene, cercando di sminuire i fallimenti. Le imprese sono come una donna che si trucca prima di uscire: lo scopo è essere più bella: se poi è meno trasparente ovvero un po' meno se stessa chissà, chi può dirlo? In ogni caso, stiamo parlando di poca trasparenza: da questo alla slealtà ce ne corre. Il risultato comunque sia è che il consumatore è comunque "scafato" e capisce a chi può dare fiducia e a chi no. E in questo la rete oggi è strategica.
Ma la comunicazione può inventarsi la sostenibilità dove non c'è?
No, e comunque si tratterebbe di bugie con le gambe corte. La comunicazione può produrre un grande valore basandosi su quello che viene fatto, sui comportamenti, e a volte può anzi indirizzare i valori dell'azienda verso una maggiore sostenibilità.
Spesso il consumatore percepisce le certificazioni, prima tra tutte quella biologica, come una garanzia. Ma si tratta di un mondo intricatissimo?
Sì. Innanzitutto mancano standard comunemente riconosciuti, se non per pochi settori. Gli enti certificatori tendono a sviluppare propri schemi chiusi e le aziende sono spesso costrette a moltiplicare le certificazioni e a pagare a caro prezzo la possibilità di esporre i marchi sulle confezioni, una tendenza che nasconde il rischio di abbassare gli standard di qualificazione. Allo stesso tempo, l'autocertificazione non è un'opzione. È anarchia. In Italia, in assenza di regole, e in presenza di un consumatore che non crede all'autocertificazione e che vuole saperne sempre di più - perché più ne sa, più ne vuole sapere - vinceranno quei marchi che saranno in grado di farsi riconoscere dal mercato. Vincerà chi insegnerà ai consumatori a discernere tra i vari simboli, quelli che restituiscono qualcosa al sistema.
Le aziende invece che importanza danno alle certificazioni?
Le aziende danno importanza alle certificazioni nel momento in cui capiscono che esse hanno valore sul mercato.
Le è mai capitato di consigliare alle aziende di certificarsi?
Sì, mi è capitato. Si tratta, eccetto il biologico, di certificazioni che garantiscono una filiera e servono per il rapporto tra azienda e grande distribuzione. La Gdo, non potendo controllare tutto, ha bisogno di un marchio credibile che certifichi le qualità di un'azienda.
Un consumatore che voglia capire se la politica di sostenibilità di un'azienda è seria, che cosa deve guardare?
È importante il modo in cui un'azienda comunica. Quando si parla di "prodotti verdi", infatti, il consumatore contemporaneo - sempre più consapevole e con sempre meno fiducia nei confronti dei messaggi pubblicitari - ricerca informazioni che possano aiutarlo a decidere: sì dunque alla trasparenza, alla verificabilità e soprattutto alla credibilità dei messaggi. Solo informando in modo corretto sulle proprie performance ambientali e non, le aziende possono, infatti, riuscire a "ispirare fiducia" al consumatore, aiutandolo a scegliere un prodotto. È un modo anche per contribuire a costruire un mercato di prodotti realmente sostenibili.