L’ambiente è un bene comune per eccellenza e il suo stato di salute è fondamentale per il nostro futuro: per questo l’informazione ambientale ha un ruolo di primo piano per la democrazia e il dibattito pubblico, e può contribuire in modo significativo a ripensare la professione del giornalista, che oggi è in crisi. È questo uno dei messaggi chiave contenuti nella “dichiarazione di Olbia”, un documento elaborato dai giornalisti dell'Unione cattolica stampa italiana, che a metà ottobre si sono riuniti per tre giorni nel capoluogo gallurese colpito nel 2013 dal ciclone Cleopatra e più di recente dal ciclone Mediterraneo. La carta, che si ispira all’enciclica Laudato Si’ di Papa Francesco, rivolge ai giornalisti un invito all’etica e alla responsabilità, perché si impegnino a indagare i fenomeni di cattiva gestione delle risorse naturali e a raccontare anche storie positive che possano essere di esempio.
Andrea Melodia, presidente di Ucsi, com’è nata l’idea del documento?
L’idea di organizzare un convegno su informazione e tutela dell’ambiente ci è venuta due anni fa, quando Olbia era stata colpita dal ciclone Cleopatra. Il nostro obiettivo era fin da subito concludere l’iniziativa con un documento, che però non chiamerei “carta deontologica”: i giornalisti ne hanno già troppe e pensiamo che prima ancora di focalizzarsi su queste regole specifiche, sia necessario un impegno concreto nel lavoro di tutti i giorni, interrogandosi sulla qualità del proprio lavoro, inteso come servizio pubblico.
Nel documento fate riferimento alla crisi di credibilità di questa professione, causata da una parte dall’esplosione dei nuovi mezzi di comunicazione, e dall’altra da mancanze ed errori della stessa categoria. Come se ne esce?
Il futuro del giornalismo sta nella riscoperta della sua utilità sociale, in un rapporto costante con le comunità locali. Oggi chi opera nell’informazione ha a disposizione tutti gli strumenti per fare inchieste, verificare i dati, controllare quello che succede. È un lavoro sempre più difficile, che non può più limitarsi ad aspettare che le notizie arrivino.
Tra i disastri che vediamo succedere ogni autunno, causati da nubifragi e casi di dissesto idrogeologico, molti sono frutto di incuria del territorio, abusivismo edilizio, opere pubbliche mal costruite. Cose che almeno in parte potrebbero essere evitate con un controllo attento dei cittadini. In questa disattenzione verso la cosa pubblica hanno una responsabilità anche i giornalisti?
Sì, su due livelli: da una parte nel loro lavoro di informazione non sempre riflettono sulle responsabilità generali, mentre dall’altro lato creano discredito verso le istituzioni che si occupano di gestire l’ambiente. I fenomeni di corruzione e mala gestione della cosa pubblica vanno denunciati, il giornalista è prima di tutto il cane da guardia del potere, ma questo non significa che non si deve riconoscere il valore degli interventi pubblici.
Nel giornalismo la notizia di solito è quella cattiva, ma nel vostro documento parlate dell’importanza di “mostrare modelli virtuosi di comportamenti pubblici e privati” come “doverosa attenzione educativa”. Ci sono spazi per raccontare l’altro lato della medaglia?
Certo: non si tratta di inseguire la buona notizia a tutti i costi, ma piuttosto di raccontare comportamenti esemplari per il vivere civile, affiancando al necessario ruolo di denuncia e vigilanza anche quello di facilitatore della vita collettiva. Attraverso queste due strade il giornalismo ambientale, oltre ad avere una sua rilevanza tematica, è anche un modo per ricostruire un buon rapporto tra i cittadini e la politica. L’ambiente è un bene pubblico per eccellenza e un’informazione corretta e competente può aiutare anche a superare le derive populiste che vediamo nell’Italia di oggi.