Si terrà dal 30 novembre all’11 dicembre 2015 la 21º Conferenza della parti sul cambiamento climatico (Cop21), con la partecipazione di 196 Paesi che tenteranno un accordo sulla riduzione delle emissioni, per contrastare così l'aumento delle temperature globali. Cosa ci dobbiamo aspettare, quali sono gli impegni presi da nazioni come Cina e Stati Uniti? Ne abbiamo parlato con Edo Ronchi, presidente di Fondazione sviluppo sostenibile ed ex ministro dell'ambiente.
Il 30 novembre inizia la Cop21, appuntamento fondamentale per quanto riguarda gli accordi internazionali sulla riduzione delle emissioni. Quali sono le differenze con il precedente trattato, scaduto nel 2012?
Da Parigi uscirà un nuovo trattato, la cui impostazione sarà differente dal Protocollo di Kyoto. Le differenze sono sostanzialmente due: il nuovo accordo si baserà sugli impegni presi dai singoli Paesi, che diventeranno vincolanti. Secondo, non ci saranno più Paesi esclusi dalla riduzione, ora l'impegno sarà richiesto a tutti gli Stati facenti parte delle Nazioni Unite.
Cosa ci dobbiamo attendere dal nuovo trattato?
Abbiamo già l'elenco del calcolo delle riduzioni che derivano dagli impegni comunicati alla segreteria della Cop21 dai singoli Paesi. La somma di questi impegni è purtroppo insufficiente rispetto alla traiettoria che consente di contenere l'aumento globale di temperatura (oggi già 0,8 gradi centigradi) entro i 2 gradi, giudicati non privi di conseguenze, ma comunque non catastrofici. C'è quindi da chiedersi se questi impegni saranno migliorati.
Cosa vuol dire non sufficienti? Cosa accadrebbe se non si resta sotto i due gradi e si riducono le emissioni entro il 2030?
Non si tratta di una data definitiva, sia chiaro. Da qui si andrà al 2030 e poi ci potranno essere degli impegni verso il 2050. Diventerà però più difficile e dovremo affrontarne le conseguenze, già in atto oggi del resto. Resta difficile fare delle previsioni sulla relazione tra quantità ridotta e intensificazione dei fenomeni, però è certo che se non si ridurranno le emissioni, l'intensità di questi eventi aumenterà. In quali proporzioni nessuno lo può dire, perché i modelli sono molto complessi.
Un'enorme responsabilità da parte dei Paesi che parteciperanno alla Conferenza.
Non ci sono dubbi scientifici. Purtroppo si sa che non siamo oggi nella traiettoria dei due gradi con questi impegni di riduzione delle emissioni nazionali.
Perché secondo lei in Italia c'è ancora questa difficoltà a parlare di cambiamento climatico?
Francamente sono colpito da questa situazione. All'estero il dibattito è alquanto vivace. E questo accade nonostante l'Italia sia uno dei Paesi più esposti ai rischi del cambiamento climatico, dalle alluvioni alle ondate di calore. E non parliamo solo di eventi estremi ma anche di conseguenze economiche: solo l'anno scorso sono stati spesi 3 miliardi di euro, senza contare quanto costano le attività economiche interrotte.
Diversamente da quanto accade negli Stati Uniti ad esempio.
Sì, il presidente degli Stati Uniti Obama ha preso di petto la questione della riduzione delle emissioni. Anche se questo resta ancora inadeguato. Mentre noi come Europa abbiamo ridotto le emissioni, loro le hanno aumentate. Inoltre l'anno di riferimento per la riduzione (il 2005), è l'anno di picco delle emissioni americane: in questo modo non recupereranno nemmeno Kyoto. Dovrebbero fare molto di più, ma a discolpa di Obama rimane l'ostilità prevalente nel Congresso nei confronti dei pacchetti per la riduzione delle emissioni.
E per quanto riguarda l'Europa?
L'Ue, con gli impegni presi finora risulta in traiettoria. Il taglio del 40 per cento entro il 2030 significa che potremmo arrivare all'80 per cento entro il 2050, anno in cui i Paesi industrializzati dovrebbero ridurre le emissioni della metà rispetto ai livelli del 1990.
Quali sono le altre opzioni disponibili, al di là degli accordi sulle riduzioni?
Dovremmo puntare sull'istituzione di una carbon tax. L'hanno già fatto la Francia, il Regno Unito, l'Irlanda, la Danimarca, la Svezia e la Finlandia. Si tratterebbe di uno strumento molto efficace. La stessa Christine Lagarde, direttore del Fondo monetario internazionale, ha affermato che dobbiamo introdurre una sorta di carbon pricing: ridurre i sussidi alle fossili e mettere dei costi sulla CO2.