Qual è il prezzo reale della frutta tropicale a basso costo? Al supermercato la paghiamo pochi euro al chilo, anche meno di 1 euro nel caso delle banane, ma non sappiamo che dietro quelle offerte così convenienti si nascondono metodi di coltivazione ad alto impatto ambientale e violazioni delle leggi sul lavoro. Mentre la situazione in molti casi sta peggiorando, 19 organizzazioni di tutto il mondo hanno deciso di avviare la campagna Make Fruit Fair!, con l’obiettivo di chiedere azioni concrete a governi e grande distribuzione, sensibilizzare i consumatori e migliorare quindi le condizioni di vita e di lavoro di centinaia di migliaia di persone che coltivano, raccolgono e impacchettano la frutta tropicale. “Gli esempi più importanti sono banane e ananas: la banana è il frutto più commercializzato a livello mondiale, coltivato in più di 150 paesi, vengono prodotte 107 milioni di tonnellate all’anno. Il commercio internazionale di ananas si sta espandendo rapidamente, uno ogni due frutti viene prodotto per l’esportazione”, spiegano i responsabili della campagna, che nel nostro Paese è coordinata dalla ong Gvc Italia.
In particolare, sul piano ambientale molti problemi sono legati al fatto che le coltivazioni di questa frutta sono monocolture intensive, con un massiccio uso di sostanze chimiche. Nel caso delle banane, addirittura, il 97% di quelle commercializzate a livello internazionale sono di un’unica varietà, la Cavendish. “Questa mancanza di diversità genetica rende le banane molto vulnerabili di fronte a parassiti, funghi e malattie e quindi vengono usate grosse quantità di insetticidi e pesticidi. Man mano che parassiti e organismi patogeni si adattano, è necessario usare pesticidi sempre più forti e dannosi. La maggior parte dei proprietari delle piantagioni spenderà più soldi in sostanze chimiche che in forza lavoro”. Non va meglio nelle coltivazioni di ananas, dove gli erbicidi usati sono dalle 10 alle 15 volte superiori di quelli sparsi su altri tipi di piante.
Gli effetti sono gravissimi. Le coltivazioni di ananas si trovano nelle aree di foreste pluviali: le forti piogge portano così questi veleni nelle falde acquifere, nei laghi e nei fiumi e contaminano fonti idriche di comunità anche a distanze di 100 metri dalla piantagione. I pesci muoiono, mentre le persone, inconsapevoli, bevono l’acqua contaminata e la usano per lavarsi e cucinare. “Si stima che l’85% dei composti chimici spruzzati con gli aerei non si depositino sulle coltivazioni, ma saturino tutta la zona circostante, compresi i lavoratori, le loro abitazioni e il cibo. Le leggi che impediscono ai lavoratori di trovarsi nei campi durante lo spargimento dei pesticidi vengono regolarmente violate”, continuano le ong, tra le quali c’è anche Oxfam Germania e organizzazioni di Camerun, Colombia, Ecuador e Windward Islands, nelle Piccole Antille. Gli impatti sulla salute di chi lavora nelle piantagioni sono numerosi: vanno dalla depressione al cancro, dagli aborti spontanei alle malformazioni neonatali.
Gli impatti sociali non sono meno allarmanti. In Paesi come la Repubblica Dominicana e il Costa Rica, molti lavoratori sono migranti a cui pochi diritti vengono riconosciuti. Spesso i braccianti delle piantagioni sono assunti attraverso intermediari: così per loro diventa molto difficile organizzarsi in sindacati, mentre la paga è ancora più bassa. Le donne spesso lavorano anche 14 ore al giorno, e molte, oltre alla sistematica violazione dei loro diritti, devono subire sul posto di lavoro anche violenze sessuali.